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Cambiamento climatico, identità del vino e geografia dei terroir

26.07.2022

Il climate change sta avendo un impatto molto forte sulla viticoltura a livello globale, riguardando uno degli elementi che incide sulle caratteristiche non solo dei vini ma soprattutto dei territori di cui sono espressione.

La vocazione di un areale ad accogliere un determinato tipo di vitigno piuttosto che un altro e a dar vita a vini con una riconoscibile identità è infatti strettamente connessa al microclima e alle caratteristiche minerali del suolo, all’altitudine e all’esposizione dei filari.

Sono questi aspetti che combinati alchemicamente identificano un terroir e determinano il carattere e l’unicità del vino che vi si produce, fattori che inevitabilmente con il surriscaldamento globale vengono anno dopo anno messi in discussione, se si pensa che basta una lieve variazione delle precipitazioni o dei tempi e della intensità di esposizione alla luce solare per far mutare espressione, stile, identità del nettare di bacco.

Si moltiplicano così gli studi che paventano potenziali ideali delocalizzazioni delle produzioni di specifiche varietà, migrazioni atte ad andare incontro ad ambienti più accoglienti e favorevoli ad uno sviluppo armonico delle uve.

È il caso della ricerca condotta dall’Università dell’East Anglia (UEA), della London School of Economics, pubblicata sulla rivista OENO One, secondo la quale entro il 2040 il Regno Unito potrebbe rappresentare un territorio vocato alla produzione di Pinot Nero.

Per i ricercatori il cambiamento climatico sarebbe alla base dello sviluppo della viticoltura di queste terre, cresciuta del 400% tra il 2004 e il 2021. Essendo le temperature aumentate di almeno un grado centigrado dagli anni 80 ad oggi in gran parte dell’Inghilterra sud-orientale e orientale durante la stagione di coltivazione della vite, e prevedendosi entro il 2040 un ulteriore incremento di altri 1,4 gradi centigradi, si spalancherebbero le porte allo sviluppo di aree vinicole di prima qualità.

A supporto delle considerazioni vi è una evidente evoluzione delle coltivazioni in un lasso temporale relativamente breve, basti pensare che prima del 2004 i vitigni dominanti coltivati ​​nel Regno Unito erano Reichensteiner, Seyval Blanc e Müller-Thurgau, tolleranti ai climi più freddi, mentre le varietà dominanti coltivate nel 2020 sono state Pinot nero, Chardonnay e Pinot Meunier.

Un’eccezionale testimonianza del cambiamento climatico in atto viene anche da uno studio condotto da un gruppo di scienziati coordinati da Thomas Labbé, dell’Università della Borgogna a Digione, e Christian Pfister, dell’Università di Berna.

La ricerca, che copre un arco temporale molto ampio, dal 1354 al 2018, ricostruisce le date delle vendemmie dei viticoltori della cittadina di Beaune, la principale località della zona di produzione del vino di Borgogna. L’evidenza emersa dallo studio dei dati è che fino al 1987 si dava il via alla raccolta delle uve dal 28 settembre, mentre dal 1988 ci si è anticipati in media di 13 giorni.

L’analisi della serie storica evidenzia chiaramente che le annate molto calde e secche non erano comuni in passato, ma sono diventate la norma negli ultimi 30 anni, condizione che ha spostato l’interesse di molti vigneron verso quegli areali più freschi ritenuti fino a vent’anni fa minori rispetto alla celebre Côte d’Or.

A questo punto vale la pena chiedersi se stando a questa tipologia di studi dovremmo aspettarci davvero migrazioni di vitigni e nuove mappe dei terroir riscritte sulla base dell’evoluzione climatica. Le opinioni in materia sono discordanti, c’è infatti un’altra versione sulla possibile reazione al climate change.

Secondo il professor Attilio Scienza, ordinario di Viticoltura all’Università di Milano e tra i più autorevoli studiosi a livello internazionale, lo scenario va affrontato partendo dal presupposto che il viticoltore si adatta da secoli modificando pratiche, varietà e gusti ma oggi, rispetto al passato, ha a disposizione molti più strumenti per fronteggiare l’emergenza climatica.

Dai modelli predittivi che consentono di adottare contromisure mirate, agli studi di genetica: i portainnesti più tolleranti alla siccità, gli stessi vitigni resistenti (PIWI) ottenuti da incroci. Ma siamo solo all’alba di un percorso che avrà numerose tappe intermedie e che richiede grandi investimenti e sforzi nella ricerca.

Di pari passo con la rivoluzione tecnica, andrebbe poi affrontato lo sforzo di comunicazione nei confronti del mercato: i consumatori oggi richiedono autenticità, cercano l’identità di un vino, vogliono scoprire anima e carattere di chi lo produce e la storia del territorio di origine, bisogna accompagnarli e opportunamente informarli sul percorso che la viticoltura sta affrontando e sui cambiamenti che potrebbe comportare, anche nelle caratteristiche e nelle proprietà di ciò che troveranno nel calice.

E sui fenomeni di eventuale delocalizzazione, cioè sull’ipotesi di spostare la viticoltura dalle zone antiche di tradizione a zone che hanno un profilo climatico più favorevole, il professore tende a sdrammatizzare ritenendo che paradossalmente il climate change è sofferto più dal Nord che dal Sud.

Si potrebbe pensare che le criticità siano maggiori nelle zone più calde, ma al contrario quelle hanno avuto più tempo per adattarsi, mentre gli sbalzi termici sono molto più significativi a Nord che a Sud. Meglio contare quindi sulla resilienza dei viticoltori e sulla capacità di affrontare il cambiamento ormai sedimentata nel tempo.

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