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Ripensare le produzioni, anticipare gli scenari. Cosa insegna la crisi dei vignaioli di Bordeaux

23.03.2023

La crisi del sistema produttivo vitivinicolo di Bordeaux, con centinaia di vigneron che protestano, è un campanello d’allarme e pone l’accento sulla necessità, non solo in Francia, di ripensare le produzioni


 

I sistemi produttivi vitivinicoli a livello globale si trovano a fare i conti con un “periodo esteso di instabilità e insicurezza”, con quella “Permacrisis”, per utilizzare il neologismo di origine britannica, che ha aperto le porte ad una fase turbolenta e complessa, caratterizzata da sconvolgimenti e accelerazioni ad un livello mai visto negli ultimi decenni, condizione che ha esacerbato crisi sistemiche latenti di alcuni distretti, notoriamente pronte a manifestarsi ciclicamente.

È il caso della Francia che non è solo terra di Borgogna e Champagne ma è espressione di un sistema vitivinicolo ben più ampio, oggi in grande sofferenza per sovrapproduzione. Nella regione di Bordeaux famiglie che vinificano da più di mezzo secolo ormai da mesi scendono in piazza e protestano chiedendo a gran voce sostegni di natura economica che gli consentano di estirpare vigne curate e amate per generazioni.

Sono più di 500 i vigneron che provano a sfuggire alla rovina finanziaria e insieme a loro quei viticoltori giunti ormai all’età della pensione che non riescono a cedere le loro attività ma che non possono nemmeno abbandonarle. Per loro il danno oltre la beffa, trascurare un vigneto è illegale, senza trattamenti a tutela della diffusione di malattie potrebbero danneggiare quelli confinanti, quindi o si coltivano o vanno estirpati, tertium non datur.

Si chiede l’intervento del governo, che metta in campo strumenti di regolazione della domanda e dell’offerta, ma anche un piano sociale per aiutare i coltivatori, una disponibilità di fondi che offrirebbe una via di uscita a chi è in un vicolo cieco. Servono dai 100 ai 150 milioni di euro per cancellare definitivamente tra i 10.000 e i 15.000 ettari di vigneti in eccesso e superare così la crisi della più grande Appellation d’Origine Contrôlée (AOC) della Francia, un territorio in cui nascono ogni anno tra i 500 e i 600 milioni di bottiglie e che conta 108.000 ettari vitati.

Le istituzioni temporeggiano dal momento che soluzioni dirette l’Europa non ne offre: si potrebbe accedere alla dotazione del fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FAESR) ma a quanto pare l’ipotesi della conversione è l’unica ad essere contemplata, l’estirpazione non sarebbe tra le soluzioni finanziabili.

Ma da dove nasce questa crisi? Sicuramente un grosso peso lo hanno avuto gli effetti del cambiamento climatico che negli ultimi anni si sono manifestati in modo estremo: tra siccità, gelate tardive, grandinate e alluvioni la Francia, secondo i dati dell’Agenzia europea dell’ambiente, rappresenterebbe il paese che sta subendo le maggiori perdite economiche determinate dal climate change.

Dal 1985 le temperature medie sono aumentate di 1,5 gradi, l’invaiatura è anticipata in media di tre giorni, cifra che potrebbe salire a 7 entro il prossimo decennio, le vigne sperimentano stress idrico, incidenza della grandine, germogliamento anticipato con un clima che da temperato si è trasformato in temperato caldo. Sono rimaste impresse nella memoria di tutto il mondo le immagini del 2021 con le vigne di gran parte della Francia illuminate da candele, piccoli fuochi, stufe a paraffina, sforzi notturni dei viticoltori per limitare i danni che non sono stati però sufficienti ad evitare la perdita di grosse fette del raccolto.

Altro elemento critico è la domanda interna di vino ridimensionatasi fortemente proprio in Francia, dove negli anni 50 l’adulto medio beveva 150 litri di vino pro capite all’anno, cifra che è calata vertiginosamente soprattutto negli ultimi dieci anni per scendere sotto i 40 litri, con una fetta importante della popolazione francese (38%) che non beve mai vino.

Se tra i pensionati ultrasessantenni il consumo non è cambiato, sono i giovani tra i 18 e i 35 anni che sono restii ad avvicinarsi al vino, soprattutto a quello rosso che rappresenta l’85% della produzione della regione di Bordeaux, preferendo durante il pasto acqua o birra, una tendenza probabilmente frutto anche di un neoproibizionismo che in Francia tiene banco da diversi anni, motivo per il quale la notizia delle etichette irlandesi non ha fatto più di tanto scalpore.

Il risultato è che si produce più di quanto il mercato riesca ad assorbire, su 480 milioni di casse della regione di Bordeaux ne vengono vendute solo 440 milioni, gran parte delle quali a prezzi molto bassi con il vino sfuso che raggiunge ormai cifre irrisorie.

Anche la sovrapproduzione dell’annata 2022, che sta diventando oramai strutturale pure nelle annate meno generose, non sarebbe un problema in condizioni normali ma lo diventa di fronte al crollo del potere di acquisto dei consumatori. La via è quella della distillazione nel breve termine, ma nel lungo deve cambiare qualcosa, le cantine sono piene, la redditività è in caduta libera, aggravata dall’aumento dei costi di gestione del vigneto e dalla contrazione di alcuni dei mercati esteri di sbocco più importanti.

Le esportazioni verso la Cina, il paese che 15 anni fa aveva salvato Bordeaux dall’ennesima ciclica crisi, sono diminuite del 30%, oggi anche inglesi e americani sembrano guardare altrove, Australia, Sud Africa, Cile, e il ritorno ad un’epoca d’oro che distoglieva l’attenzione da una crisi strutturale ha sottaciuto una fragilità che con inflazione e costo della vita in crescita è venuta a galla.

E sebbene molte realtà continuino a combattere investendo su certificazioni di conduzione biologica orientata alla sostenibilità o sulla riconversione delle proprie tenute in chiave ricettiva abbracciando il trend in ascesa dell’enoturismo, i piccoli produttori restano in un pantano dal quale sembra improbabile uscire anche a causa di uno scenario economico globale più che complesso.

Il cambiamento climatico, la congiuntura economica post Covid, inasprita dal conflitto russo ucraino, che ha portato con sé crisi energetica, scarsità delle materie prime, incremento dei costi di produzione e inflazione, l’evoluzione dei comportamenti di consumo influenzata dalla pandemia quanto da un neoproibizionismo galoppante, sono tutte componenti di una miscela esplosiva che ha innescato reazioni sul mercato francese non prevedibili, spaccando il paese in due distinte realtà che seguono due velocità: chi, come Champagne e Borgogna, corre e cresce e chi, come Bordeaux, anno dopo anno, deve fronteggiare limiti diventati strutturali, in mezzo le denominazioni che in condizioni di normalità non farebbero fatica a stare sul mercato ma pagano la tempesta inflazionistica.

Un dualismo che potrebbe riproporsi anche in altri paesi storici produttori di vino laddove non si metta mano ad una diversa strategia di sviluppo che guardi a contesti sempre più dinamici, complessi e instabili.


 

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